Il nome e gli appellativi di Maria: altro aspetto della mariologia di Antonio
Abbiamo già affrontato un primo aspetto della mariologia di Sant’Antonio nel numero del Si Quaeris di gennaio 2018. In occasione del mese di settembre e della Solenne Festa della Madonna dei Martiri, vogliamo soffermarci proprio sul nome di Maria, considerato che proprio l’8 settembre la Chiesa Cattolica celebra il Santissimo nome di Maria.
Per Antonio, è dolce scrivere quel nome e ancora di più invocarlo: nei suoi Sermones, lo scrive da solo 82 volte, lo unisce 90 volte all’aggettivo beata o santa, 25 volte lo unisce all’appellativo vergine o sempre vergine. Antonio ha il culto della verginità, non tanto per la sua realtà fisica, quanto per ciò che significa: e un dono offerto a Dio, comporta l’amore totale a Cristo, è una dimensione della persona che assomma in sé una serie di virtù.
L’umanità di Maria, espressa nell’essere donna, è posta di fronte alla divinità ed esprime l’umiltà del Verbo che si pone in grembo a lei, vista come il cesto di vimini che salvò Mosé dalle acque. E questa umanità di Maria Antonio la vede espressa soprattutto nelle tre virtù che richiama continuamente: l’umiltà, la povertà, la verginità.
Antonio cerca di approfondire ulteriormente questa realtà umana di Maria e nel suo amore sceglie un terzo gruppo di appellativi, che sono una caratteristica del suo modo di esprimere la sua fede e il suo amore verso di lei. Profondo studioso delle Scritture, formato in un monastero, egli vive però con gli occhi e il cuore spalancati verso tutto ciò che Dio ha donato agli uomini. E in ogni creatura coglie un riflesso di Maria.
Prende dalla natura una lunga serie di immagini: un primo gruppo ruota intorno al concetto di luce. Maria è luminosa, come Mosè che scende dall’incontro con Dio sul Sinai, irradia una luce misteriosa che colma Giuseppe di profondo rispetto verso la sua vergine sposa. Ma è anche una luce espressa in immagini concrete, e se vogliamo comprendere bene la loro pregnanza dobbiamo ricordare quanto buia e paurosa fosse la terra all’epoca di Antonio quando il sole era calato. Solo qualche fuoco nelle case, e intorno il buio che, però, si dissolveva quando la luna illuminava le strade donando sicurezza.
Maria, quindi, è la luna, anzi, la luna piena. Ma nelle notti in cui essa non c’è, un po’ di chiarore viene anche dalle stelle, prima che il sorgere della stella del mattino, la stella più bella, rassicuri gli uomini annunciando il giorno nuovo che sta per venire. E il sole sorge, il sole fulgente in cui Francesco, maestro di Antonio, vedeva il segno di Dio; quel sole la cui luce, quando attraversa le nubi gonfie di pioggia, si scinde in un arcobaleno che con la gioia dei suoi colori sembra collegare il cielo alla terra ricordando la promessa di pace e di alleanza fra Dio e l’uomo, quell’alleanza che proprio in Maria si è compiuta con l’incarnazione.
Leggendo i sermoni di Antonio, si resta stupiti per l’insistenza di alcuni concetti con cui esprime ciò che egli pensa di Maria. Uno di questi è appunto il concetto di colore collegato al concetto di bellezza. Tutto è bellezza in lei: bellezza delle virtù che rallegrano Dio e costituiscono l’incanto e l’ammirazione degli angeli e dei santi. Antonio non si limita a vedere la pienezza di grazia di lei, ma con occhi estatici va in cerca di tutte le immagini che possono rappresentare questa bellezza totale, assoluta. Sono immagini di cose evidenti, come il cipresso svettante o la palma, ma sono immagini anche di piccole cose che Antonio sa vedere con amore e delle quali ringrazia Dio.
Maria, dice, è come un fiore sul greto di un fiume, una piccola cosa ma che egli sa cogliere nel suo immenso significato e nella quale vede il riflesso di Maria, così come vede Maria nell’immensità infinita del deserto intatto. Il deserto, per chi lo vede la prima volta, toglie il respiro per la sensazione d’infinito che riesce a dare; e Antonio, missionario in Marocco, lo ha visto e non lo ha dimenticato. E nel deserto il vento scolpisce fiori di pietra, altrettanto belli di una rosa o di un giglio profumato.
Antonio ha molti ricordi della sua permanenza in Africa: e nel suo stupore ammirato li collega a Maria: per esempio, ricorda il candore dell’avorio e pensando a Maria candida e immacolata la chiama con stupore quasi infantile elefante, ricordando la pazienza nel servizio di questo strano animale e la sua avversione al male che Antonio vede rappresentato nel topo.
Per lodarla, Antonio trae continuamente immagini nuove da qualsiasi cosa abbia intorno: uomo di chiesa, sente il fascino che il luogo sacro ha per chi ne venga in contatto, ed ecco che chiama Maria porta del santuario, tempio consacrato, tabernacolo; e ancora: incenso profumato, incenso ardente, vaso ammirabile fatto dall’Eccelso. Ma anche la realtà profana gli dà spunti e immagini: Maria che nel suo ventre e nel suo cuore accoglie il Verbo è per lui un vaso d’oro, un vaso di pietre preziose, una conca, prezioso recipiente per raccogliere l’acqua che serve alla vita.
Ha fantasia di poeta, Antonio: e volendo insegnare ai suoi uditori che Maria è l’immenso dono di Dio per tutti noi, raccoglie un gruppo di immagini intorno al concetto di dono. Maria è l’albero della vita, è la terra fecondata dalla rugiada da cui traggono l’esistenza la vite feconda che dona agli uomini il vino, l’olivo che ci dona l’olio, il grano che ci dà il pane. Maria, infatti, è per Antonio un mucchio di grano. L’aveva già chiamata casa del pane, ma torna di nuovo a sottolineare questo concetto fondamentale per l’uomo. Maria dona il cibo che è Cristo, pane degli uomini, dona a lui e agli uomini il suo latte materno, così come una cerva che allatta il suo piccolo dopo averlo partorito come lei sulla paglia, come un’ape buona che dona la dolcezza del miele.