Convegno pastorale diocesano: annunciare la gioia del Vangelo ai giovani
“I giovani non partecipano alle nostre attività confraternali”. “Sono pochi i giovani che si iscrivono alle nostre Confraternite”. “Come possiamo coinvolgere i nostri giovani, prima di perderli del tutto?”. Sono alcune delle domande che molti confratelli si pongono o potrebbero porsi su quella che sembra diventata una problematica dilagante: i giovani lontani e assenti. Problema che, purtroppo, coinvolge tutta la Chiesa, nei suoi organi, nelle sue Associazioni e, in particolar modo, nelle Parrocchie.
Nella prima giornata del Convegno Pastorale Diocesano (20-21 settembre), “Annunciare la gioia del vangelo ai giovani”, il relatore don Michele Falabretti, direttore dell'ufficio CEI di Pastorale Giovanile, ha cercato di offrire momenti e spunti di riflessione sulla presenza dei giovani nella Chiesa a partire dal documento preparatorio al Sinodo dei Giovani del prossimo ottobre 2018.
«Mi ha impressionato, leggendo i questionari di tutta Italia, che la percezione maggiormente diffusa in Italia sia quella che noi sacerdoti e operatori della pastorale facciamo fatica ad avvicinare i giovani e a incontrarli. Anzi, ci fa paura vedere i banchi della chiesa vuoti la domenica, al contrario di quanto accadeva nel passato, quasi si facesse sempre più concreto lo spettro di una chiesa che deve chiudere i battenti – ha esordito don Michele Falabretti -. Cosa vuol dire, dunque, Chiesa in uscita? Dobbiamo chiederci che forma vogliamo dare alla Chiesa, una Chiesa che deve solo riempire di nuovo i suoi spazi oppure una Chiesa che esce dai propri ambienti e che si fa compagna di strada dell’uomo di oggi». Infatti, «la vita non si svolge più attorno al campanile, ma negli ambienti della quotidianità».
Forse, una stessa riflessione dovrebbero farla tutte le Associazioni laicali della Chiesa, comprese le Confraternite: riempire solo spazi lasciati vuoti dal tempo o essere compagni di strada del prossimo? Come ha più volte sottolineato don Michele Falabretti, il criterio dell’essere chiesa in uscita non dev’essere solo quello quantitativo, ovvero quanti ragazzi sono venuti in chiesa, ma qualitativo. È importante lo sguardo con cui guardiamo e ci guardiamo, uno sguardo non di critica secca e improduttiva, di commiserazione o di condanna, ma di amore e comprensione.
Cosa chiedono i giovani? Secondo i dati emersi dai questionari compilati dagli stessi giovani per il Sinodo, «essi guardano la vita dei cristiani con rispetto quando i cristiani sono coerenti» e «cercano il Signore nella vita quotidiana». Anzi, è opportuno sottolineare che i “giovani d’oggi” (sintagma dispregiativo utilizzato solo per classificare) non sono peggiori di quelli di 20/30 anni fa, tantomeno quelli sono migliori di questi: «I tempi non sono cambiati come anche gli atteggiamenti delle persone e dei giovani. Siamo di fronte, come dice il Papa, a un cambiamento epocale. Oggi c’è solo un clima di dispersione maggiore rispetto al passato – ha evidenziato Falabretti -. Dobbiamo chiederci dove sono, a chi si affidano e a quali valori. Ricordiamo che tutti siamo convocati nell’azione educativa e che, in questo caso, non esistono deleghe».
L’educazione non può essere vissuta come un semplice trasferimento di nozioni: se esser giovani vuol dire essere esposti di più agli errori, essere identità in ricerca, allora anche noi dobbiamo trovare la misura per stare accanto a loro, senza costringerli in una etichetta sociale che non li descrive affatto.
«Non smettiamo di credere che i giovani oggi continuano a coltivare dei sogni, soltanto perché è più difficile vivere dei sogni o realizzarli. Non smettiamo di pensare che nel loro cuore abiti il desiderio di una vita buona – ha concluso Falabretti -. Forse oggi i giovani hanno meno coraggio di verbalizzare i sogni e i desideri che portano nel cuore. Anche loro, forse, conservano, nascosti, i loro desideri da orecchie indiscrete, sanno che il domani porterà qualcosa di inatteso. Anzi, sono proprio loro che sanno attendere con speranza e fiducia rispetto a noi adulti».
Ricordiamo che dobbiamo dimostrare con i fatti che noi adulti crediamo davvero nel Vangelo, non per rispetto, per devozione, per tradizione, per paura, ma ci crediamo perché abbiamo scoperto la gioia del vangelo, perché sappiamo che il Vangelo rende la nostra vita migliore. La credibilità del e nel Vangelo passa dalla credibilità della nostra vita. Inoltre, non serve pressarli o ossessionarli: anzi, chiedono agli operatori pastorali di star loro accanto, di essere compagni di viaggio, capaci di comprendere, accogliere, ascoltare, perdonare e anche farsi da parte (generare le persone alla vita di fede vuol dire generare persone libere e autonome).
Testimoniamo una fede che sia qualcosa di bello, non solo qualcosa di buono: come ha affermato don Michele Falabretti «o mostriamo il bello del cristiano o ci giochiamo la possibilità di una testimonianza cristiana». I giovani devono capire che in gioco c’è la vita, la loro dimensione umana non la religione: c’è un modo diverso per essere persone e questo è donato dal Vangelo che non è solo un libro antico e prezioso, ma un “libro” che racconta dell’uomo e della umanità, per dare senso e significato alle relazioni. Dobbiamo imparare l’arte di suscitare le domande giuste prima di dare delle risposte (nella vita si impara provando).
Dobbiamo aiutare i giovani a capire che il Vangelo non ti fa trovare il capolinea della vita, ma il passaggio o la porta che apre alle strade più significative della vita. Non dobbiamo stare di fronte ai giovani come coloro che devono insegnare e sanno tutto: saremo destinati al fallimento. Dobbiamo guardali con lo sguardo di chi crede che in loro ci sia il sigillo della creazione.
Marcello la Forgia